A special proposition co-organised with Xing for Live Arts Week IV.
HPSCHD 1969>2015, live concert & visual environment, MAMbo, Bologna, 2015
Philip Corner, Valerio Tricoli, Luciano Chessa, Marco Dal Pane, Anthony Pateras, Salvatore Panu, Enrico Boccioletti, Ben Vickers, Holly White, Yuri Pattison, Auto Italia, Jennifer Chan, Jaakko Pallasvuo, Ogino Knauss, Riccardo Benassi, Andrea Magnani, Carola Spadoni, Anne de Vries, Harm van Den Dorpel, David Horvitz, Andrew Norman Wilson, Martin Kohout, Seth Price, Roberto Fassone, Alessandro di Pietro, Ilja Karilampi.
Postcard by Jaakko Pallasvuo, 2015
HPSCHD is the legendary total opera John Cage achieved in collaboration with Lejaren Hiller. It premiered on May 1969 at the Assembly Hall of the University of Illinois, Chicago, and it continues to be appreciated as the most gigantic and loud musical piece of the Twentieth century. Lejaren Hiller, the director of the Computer Music dept. of the University of Illinois, invited John Cage to present a project based on the application of calculating devices and stochastic processes. Cage proposed the basic concept of HPSCHD, inspired by an idea from Swiss harpsichordist Antoinette Vischer. Accepting the challenge, Hiller worked alongside Cage for the score and the performance, as well as solving computational and programming problems related to technology in those days. HPSCHD was born: it was a huge multi-media event, featuring 7 harpsichords, 208 recorded tapes, 59 amplifiers and 52 tape-players, all of which was organised into 13 sections. Regarding visuals, the work took advantage of an archive of 6.400 slides (5.000 courtesy of NASA), 64 slide projectors, 40 films projected by 8 projectors on a one hundred meter circular display, specifically conceived by Calvin Sumsion. A crowd of 8.000 people observed that first performance, which lasted 5 hours.
The very nature of HPSCHD is inextricable from the tumult of the year it premiered, as an essay on the subject of abundance. Cage saw the computer as a means of making an enormous number of decisions, hence producing an abundance of music for delivery in a circus atmosphere: it was the quantity and the anarchic arrangement of the whole that create the effect. 1969 is the year when Buckminster Fuller’s Utopia or Oblivion was published, nearly twenty years after Norbert Wiener’s The Human Use of Human Beings (1950) and four years after Understanding Media: The Extentions of Man by Marshall McLuhan (1964). HPSCHD could somehow depict Cage’s reply to this sequence of forward-thinking works, encouraging mankind to take part in a big thought experiment and finally come to terms with the universal–rather than global–perception, which postwar society was inevitably to acquire. His reply was properly 'Cagean': virtually endlessly ambivalent and random by method, per se. It was the first enactment or, so to speak, a first 'listening' of big data.
Postcard by Jaakko Pallasvuo, 2015
HPSCHD 1969>2015 reinterprets the trailblazing piece: both an homage, and an occasion to update and debate, thanks to the cooperation of forces from both the avant-garde generation peer to the original event, and either the so-called digital natives or Millennial generation. In the Bologna project the core elements of the musical score will be observed according to a few necessary technical updates. A visual rework is definitely worth the effort of a much more flexible interpretation, including a new series of commissions to young post-digital artists, scanning through big data networks in search of inspiration, finding what, back in 1969, was beyond imagination. In the present moment of transition and ambiguity, HPSCHD 1969>2015 is conceived with the purpose to examine this complicated phase of contemporary visual culture.
Photo: Luca Ghedini
Postcard by Jaakko Pallasvuo, 2015
Postcard by Jaakko Pallasvuo, 2015
A Pale Blue Dot, 2015
Enrico Boccioletti/Daniele Gasparinetti
Yuri Pattison ha utilizzato il Pale Blue Dot come immagine di sfondo in RELiable COMmunications, un suo progetto del 2013. È un’immagine ormai già vecchia della terra, ripresa dalla sonda Voyager 1 nel 1990. Ci siamo allontanati molto dalla rappresentazione del mondo che è stata messa in scena nel 1969 (anno di nascita di HPSCHD) e che utilizzava le prime immagini ottiche del pianeta, prese da considerevole distanza grazie alle missioni gravitazionali della NASA. In Pale Blue Dot il pianeta non si vede già più. Scompare come uno tra i tanti punti difficilmente distinguibili da un vasto rumore di fondo. Nei contributi degli autori visivi che abbiamo coinvolto in HPSCHD 1969>2015 la rappresentazione del pianeta non sembra più, in effetti, molto centrale. Al suo posto vediamo emergere molte altre cose. Tra queste, quella che si impone per prima è un grande tratto di ‘viseità’. C’è un enorme ‘faccione’ che ha coperto il tondo del pianeta. È come il segno dell’affermazione totale della personalità, del desiderio, in un ambiente che si crede smaterializzato e dal quale pare stiamo perdendo progressivamente contatto. C’è chi, recentemente, ha studiato questa ‘viseità’ nei termini di emersione – nella sfera politica – della faccia: non più partiti, solo leaders. Il volto umanizzato della luna nel film di George Méliès si sposta, in una inversione ottica, sulla faccia della terra.
O si tratta solo dell'occhio della webcam? È chiaro che per chi passa la maggior parte del proprio tempo su questi terminali della rete, tutti i layers finiscono per sovrapporsi, e tra questi livelli si insinua anche una non-indifferente funzione specchio.
Uno strumento concepito originariamente come integrazione della comunicazione tra individui, mediata dalle macchine – per trasmettere la propria immagine all’altro, e viceversa – è divenuto infine lo sguardo sempre presente su se stessi. Anche lo sdoganamento e la diffusione dei selfie tra adulti e ‘rispettabili’ business-makers, non più risibile appannaggio di pomeriggi annoiati da teenagers, non fa che rafforzare questa percezione.
C’è un passaggio significativo all’inizio di Still Life (Betamale), un video di Daniel Lopatin e Jon Rafman del 2013, che suggerisce un loop, un corto-circuito nel gioco di sguardi, un soliloquio che si spende tra come la macchina vede noi, che guardiamo in essa, e come noi ci vediamo attraverso la macchina: “Ogni volta che fissi lo schermo è possibile credere che stai contemplando l’eternità. Vedi le cose che erano dentro di te, questo è l’utero, il luogo dove ha avuto inizio ogni immaginazione. Non distogli lo sguardo dallo schermo. Sei diventato invisibile” e prosegue, “le immagini ti ammaliano, ma non riesci a non prendere sonno. Riesci ancora a vederle nitide, ma la comprensione ti sfugge”. Rimane un residuo che è l'immagine bidimensionale del soggetto, mediata da una serie di trasformazioni rispetto alle quali non siamo né al di qua, né al di là di quella linea che è solita separare la realtà dalla rappresentazione.
Questa ‘grey zone’ è lo sfondo che collega concettualmente i lavori che abbiamo scelto per HPSCHD 1969>2015: la maggior parte sono dei bozzetti, degli output volutamente parziali, concepiti deliberatamente come piccoli nodi di un sistema (quello personale di ogni artista), all’interno di un altro sistema di sistemi (quella ‘realtà stratificata’ in cui siamo inseriti). Rappresenta un elemento chiave il contributo di Seth Price, che tra i primi in questo millennio ha configurato il proprio lavoro come una dispersione di istanze, in un costante work-in-progress, con progetti a lungo termine, continui rimaneggiamenti, updates e versioni diverse e aggiornate dello stesso lavoro.
I piani di questa complessità, nel vasto ambito della casualità e della ricombinazione, non sono leggibili attraverso l’interpretazione tecnologica. È questo il travisamento più diffuso della definizione del big data. Si dà per scontato che tutti gli elementi costituiscano un pool che, seppure vastissimo e tendente all’infinito, è possibile analizzare o addirittura che sarà presto possibile leggere chiaramente, anche da un punto di vista profitable. Di Martin Kohout presenteremo Sjezd, un video dalla complessità stratificata e non immediatamente manifesta. La parola “sjezd” significa molte cose nella lingua ceca, “può descrivere un congresso, una conferenza, un viaggio, ma ha spesso un’accezione politica e piuttosto negativa”, nelle stesse parole dell’artista. Il punto di vista umano/non-umano di un telefono che riprende il video in questa folle cavalcata che è Sjezd, somiglia alle riprese fatte con un drone. Una sorta di versione lo-fi o hardcore di una consapevolezza che arriva anche dall’inarrestabile corsa verso l’ultimissima tecnologia disponibile. È il telefono-con-l’occhio-che-registra che crea un’esperienza diretta quanto mediata, fisica e visiva che lo stesso Kohout descrive come “uno scrolling on-line continuo. È come guardare un film dopo l’altro, e ancora video dopo video, per sempre”.
La tendenza all’accumulazione, la presenza quasi soverchiante di un accumulo di oggetti, cose e files prodotti, è accompagnato da un sogno logistico: quello di poter produrre on-demand e a distanza. I dati possono istruire una stampante 3D che si trova all’altro capo del pianeta e un drone può consegnare il prodotto, compiendo l’ultimo tratto di strada.
Anche se al momento ci sembra di avere a che fare con una tecnologia ancora embrionale, collocabile in un limbo tra il prototipo e un giocattolo molto costoso, siamo di fronte ad un dispositivo, o un insieme di dispositivi collegati tra loro, che oscillano tra un regime di abbondanza (gli oggetti), ed uno di scarsità (il tempo).
La povertà di tempo è il grande sintomo, di questa dimensione ambivalente.
Il delicato intreccio di cause-effetti nella percezione del tempo e dello spazio, abita The Distance of a Day, un lavoro del 2013 di David Horvitz: in punti opposti della terra (le Maldive e Los Angeles) lo stesso esatto lasso temporale è registrato con due iPhone su due file video di 12 minuti. Il primo registra un’alba, il secondo un tramonto. Può ricordare quello che Jean Cocteau ha chiamato ‘il mistero laico’, la percezione e lo spaesamento di un tempo al rallentatore che il poeta collega all’imprevedibilità di un incidente.
Un altro caso di ambivalenza è quello che si traduce in paralisi decisionale, ed emerge con Harm van den Dorpel quando afferma che “Si tratta di sottrarre l’ovvio per aggiungere significato” e, in Strategies (2010), il suo contributo video presente in mostra, ci ricorda che tutto è a portata di mano e pronto all’uso e “avviene nello stesso istante, non-dialetticamente”. “Vedere tutto nello stesso istante, diventando capaci di invertire la causalità”, significa trovarsi di fronte ad una compresenza in cui ogni movimento o possibilità sembrano essere comunque già inclusi e inscritti. La possibilità di determinazione della scelta, della selezione, della discriminazione, sembra annichilita.
Pratiche di sottrazione o selezione di significanza, sono invece essenziali al campo della sensibilità, e a quello dell’estetica.
Nel lavoro di molti fra questi autori, esiste un puntare l’attenzione su elementi comportamentali, su gesti e pratiche sociali ed economiche che si sono determinate in questo ambiente che è la rete. Lo sguardo, l’attenzione e il campo di visibilità che si stanno determinando sono nuovi e vengono spesso ignorati, fraintesi o dati per scontati. È qui invece che viene cercata con insistenza la significanza, de-stratificando ciò che sembra più ovvio.
Yuri Pattison opera con un approccio archivistico e analitico neutrale. In RELiable COMmunications (2013) esprime uno sguardo trasparente, presente anche in colocation, time displacement (2014). In questo video, un occhio girovaga senza-giudizio all’interno dell’ex-centro di difesa civile Pionen, in Svezia, ora sede di Bahnhof AB, un provider di accesso a internet e servizi di sicurezza per il mercato consumer e aziendale.
Il collettivo olandese Metaheaven, sviluppa tutto il proprio agire artistico facendolo coincidere con una pratica analitica e di indagine: assembla dossier sulle tecnologie dell’informazione, i loro retroscena sociali, economici e giuridici, il cui rigore scientifico è tradito soltanto dall’anomalia di certe rappresentazioni grafiche che li accompagnano. Il collettivo italiano Ogino Knauss, che proviene da una tradizione storica di architettura militante, sviluppa da molti anni una indagine sulle condizioni reali di vita nelle periferie del pianeta, stratificata in un enorme archivio di immagini. Si sfuma poi in una sorta di ‘divagazionismo’, una forma di deriva che mette assieme, allinea e associa, dati ed eventi che appartengono sia al vissuto – il visto e sentito – che elementi ed episodi ben precisi attinti da un piano ‘oggettivo’ e storico. Si tratta di una nuova scienza umana configurazionale, ma anche dell’espressione di una vera e propria poetica. Esemplare il lavoro estetico e teorico di Riccardo Benassi che presenterà la prima elaborazione di un nuovo progetto di ricerca video-discorsiva, Phonemenology (The Umbrella Paradigm). Vi è infine un versante più sporco, junkie. È un cyberpunk ultra-domestico quello da cui attinge continuamente Jennifer Chan nei suoi lavori, come in Screen Saver (2010). Roberto Fassone, con intenti diversi e il suo metodo di raccolta e analisi dati su come un’opera d’arte si costituisce, in Hey, You Just Step On My Aura! Sorry, My Bad! (2014-2015) esprime a sua volta questa attitudine, smontando e dosando a piacimento elementi analitici, estetici, e puramente emozionali. Ci sono alcuni elementi che tradiscono un certo grado di affinità tra questi artisti, sui temi e sui toni. Li ritroviamo di nuovo nei lavori di Jaakko Pallasvuo, con dei tratti malinconici, crepuscolari. Molti suoi video nascono da una riflessione solitaria e solipsistica, chiedendosi, a la Harun Farocki, “se il mondo esista se io non lo sto osservando”. Oltre alla vertigine del mondo visto dallo spazio si innesta quindi la presenza beffarda del gatto di Schrödinger – vivo o morto asfissiato a seconda del fatto che l'osservatore apra la pentola in cui è stato rinchiuso. Un universo così insistentemente sociale può produrre questo effetto? Possiamo darci ognuno una risposta per conto proprio. In buona misura quasi tutti ci siamo ficcati dentro a quella pentola, e questo grande boiler digitale rappresenta un grado zero. Immaginiamo quale sia la condizione di questo nuovo grado zero: poniamo che consista nel possedere un computer, e che il passo immediatamente successivo sia il dotarsi degli skills necessari per cercare, scaricare e far re-circolare materiale online e offline. Questa semplice sequenza di gesti si pone come un rinnovato fondamento per una serie di azioni, che si tratti di hacktivism o stacktivism (come sarebbe meglio chiamarlo in questa fase stratificata della cloud) di divulgazione culturale: dall’immissione e circolazione di materiali originali al remix di altri preesistenti, all'utilizzo creativo del medium digitale, o alla semplice circolazione di testi.
Prendere atto di questo grado zero ha valenza politica, da un punto di vista generazionale, nella misura in cui questa consapevolezza, con il lavoro necessario perché diventi una pratica, incide attivamente sul piano del reale. Questa attitudine nei confronti di computer, text edit, strumenti di default, open source e software pirata può ricordare una certa stagione controculturale. Ma c’è stato uno scarto a un certo punto che ha inaugurato una fase più matura, di cui DIS Magazine, un progetto on-line nato agli inizi di questo decennio, è un ottimo esempio. Su questa linea ulteriore possiamo anche collocare un fenomeno come Auto Italia, che esprime una miscela decisamente originale di collettivismo & aziendalismo, critica & merchandising. Siamo di fronte a un percettibile salto di scala, organizzativo ed estetico. Caosmesi, potremmo chiamarla.
Esiste al contempo un ‘nuovo radicalismo’ che consiste in un ritorno al local assoluto, all’assenza totale dalla rete, alle dinamiche di relazione in piccolissimi gruppi elitari che per motivazioni storiche e dinamiche sociali rappresenta una delle eccezioni possibili, ma non la norma. Fino ad arrivare al rigetto, come quel rito di scomparsa che ha celebrato a un certo punto della sua carriera di surfer Kevin Bewersdorf, che dal 2010 ha cercato di cancellare e far perdere ogni traccia del suo lavoro on-line. C’è, oltre alla ricerca di local assoluto, anche un bisogno di sottrazione, e l’anonimato è forse l'invenzione del futuro, il 3.0.
Anche Ben Vickers si è spostato su territori progettuali molto diversi da quelli attraversati nella prima fase, alla fine degli anni zero. Ora lavora, fra l’altro, nel progetto di unMonastery, una piattaforma nata a Matera e inaugurata un anno fa, che si confronta con gli elementi più concreti dei processi di collaborazione, convivenza e relazione con un territorio reale.
Quella dell’anonimato è una posizione che si è configurata con una certa imponenza già nel presente, ma non sostituirà mai del tutto l’individuo iper-connesso e accelerato di questi anni. Forse è nel rallentamento e nell’ibridazione in una misura possibile dei due atteggiamenti che possiamo cercare la traccia di un possibile next step.
Video walk-through HPSCHD 1969>2015 (feat Warp Stabilizer)